Il 21 ottobre del 2014
Il 21 ottobre del 2014 io ero in un pub a vedere Roma-Bayern, terza partita del girone di Champions league, risultato finale 7 a 1 per il Bayern di Monaco. Sono rimasto nel pub fino al quarto goal del Bayern Monaco. Poi sono dovuto andare via. E la mattina dopo m’è successo un fatto curioso, cioè che non mi ricordavo com’ero arrivato a letto.
La mattina dopo la partita
La mattina dopo la partita, a casa, m’ero svegliato convinto di dover essere in cucina, e invece ero nella mia camera, nella camera dove dormo, e c’era Anna di fianco a me. Che sarebbe pure una cosa logica, di mattina, svegliarmi nella mia stanza, con Anna di fianco. Solo io ero convinto di dover vedere i fornelli della cucina col bollitore acceso per scaldare il latte per Ada. E allora, dopo essermi svegliato, ero sceso di corsa in cucina per controllare che il bollitore non fosse sul fuoco. Non c’era. È evidente che se avessi lasciato per davvero il bollitore tutta la notte sul fuoco, di mattina non avrei trovato nemmeno la cucina, ma di mattina mi viene difficile fare un ragionamento così.
Allora ero risalito in camera
Allora ero risalito in camera, Anna era sveglia, mi studiava e non capiva se ero sveglio oppure no. E questo perché a volte, quando parlo e mi muovo, di notte, o di mattina presto, sono in uno stato di semi incoscienza, che sembra che sono sveglio e invece dormo, è una cosa che mi capita spesso.
Ad Anna avevo chiesto se mi avesse accompagnato lei a letto e lei mi aveva risposto di no, che dormiva da quando eravamo rientrati. Poi m’aveva chiesto: «Tutto bene?». Io ero un po’ pensieroso perché non mi ricordavo come ero arrivato a letto. Poi Anna era uscita per andare in ufficio e dopo poco si era svegliata Ada.
I fatti della sera prima
Io stavo ancora cercando di ricostruire i fatti della sera prima. Ero al pub a vedere la partita e c’era un tale che insultava Francesco Totti, ma era troppo grosso per provare a dirgli qualcosa quindi non gli avevo detto niente, avevo lasciato che continuasse con gli insulti. Poi mi aveva chiamato Anna per dirmi che Ada non stava bene, aveva male all’orecchio, niente di grave ma era meglio andare al Pronto Soccorso. «Se non è grave magari lasciamo stare col Pronto Soccorso» avevo pensato, e l’avrei pure detto, solo stavo lì a vedere la partita, che era una partita che già si capiva come sarebbe andata a finire, non c’era molto da sperare, e allora avevo salutato Marco e me n’ero andato.
La Roma stava sotto di quattro
La Roma stava sotto di quattro, ero rientrato a casa, avevo caricato in macchina Ada e Anna, eravamo andati al Pronto Soccorso. Mezz’ora di attesa e poi dal Pronto Soccorso ci avevano rimandato a casa. Al rientro, Ada dormiva, non aveva niente all’orecchio, e Anna, appena avevamo messo piede in casa, si era trascinata a letto in una maniera, ogni tanto lo fa, che sembra uno di quei gatti che ti guardano mentre tu li guardi, e loro stanno sul tuo terrazzo, e intanto si muovono, mentre ti guardano, fanno finta di niente, e un secondo dopo ti tocca ricomprare i fiori. Io avevo acceso il televisore per ascoltare qualche commento post partita e avevo pensato di scaldare un po’ di latte per Ada perché la sentivo lamentarsi. I miei ricordi finivano qui. Poi basta, non mi ricordavo altro.
Da Ada
Ero andato da Ada e le avevo detto che non mi ricordavo della sera prima. Del Pronto Soccorso sì, ma non di come ero arrivato a letto. Ada mi aveva risposto che non lo sapeva com’ero arrivato io a letto, ma lei, però, non aveva più fastidio all’orecchio ed era felice. Avevo accompagnato Ada da mia mamma, ché quel giorno, avevamo pensato con Anna, era meglio non farla andare all’asilo, anche se non aveva niente. Mentre la accompagnavo avevo continuato a lamentarmi che non mi ricordavo come ero arrivato a letto la sera prima, ma Ada non m’aveva dato molto retta e io un po’ m’ero tranquillizzato. Arrivato in ufficio avevo scaricato le mail e m’ero messo su internet a cercare parole come amnesia, malattie del sonno, dimenticanze… e avevo perso, un po’ alla volta, quella sensazione di benessere che m’ero sentito addosso quando stavo con Ada, qualche ora prima. C’erano diverse possibilità che avessi una malattia di qualche tipo, ma non sapevo di che tipo.
Varianti
Esistevano un sacco varianti, dal reflusso gastroesofageo all’ictus, e avevo passato buona parte della mattinata a catalogarle in: brutte, bruttissime, fine dei giochi. Avrei voluto telefonare a Ada per farmi tranquillizzare ma lei non aveva un telefono.
Poi m’aveva chiamato Anna, voleva sapere di Ada, di come stava. Le avevo detto che non lo sapevo come stava, Ada non ce l’aveva un telefono, come facevo a sapere come stava, avrei potuto telefonare a mia mamma, ma non l’avevo fatto. Anna aveva sbuffato, voleva dirmi un’altra cosa che però non avevo capito, perché lei, quando sta in ufficio e parla al telefono con me, bisbiglia, e io capisco meno della metà di quello che dice. Le avevo ripetuto che non mi ricordavo com’ero arrivato a letto la sera prima: poteva essere qualche malattia, magari una cosa seria. Dovevo farmi vedere da qualcuno.
Tornare prima a casa
Anna m’aveva risposto che era sonno: dovevo mettermi a dormire prima la sera e poi, prima di tornare a casa, dovevo comprare della tachipirina 125, un foglio di carta carbone e, se non l’avevo ancora fatto, dovevo sentire l’amministratore per l’umidità che veniva su dal seminterrato. «Va bene», avevo detto a Anna, «amministratore, tachipirina e carta carbone».
Però
Le avevo anche detto, però, che avevamo fatto tardi per colpa del Pronto Soccorso, non per colpa mia. Anna m’aveva risposto che non parlava della sera prima in particolare ma in generale. Dovevo andare a dormire prima la sera in generale e comprare la carta carbone. «Ma la vendono ancora la carta carbone?» avevo pensato. Ancora non avevo fatto niente in ufficio e dopo la telefonata con Anna m’ero rimesso su internet a leggere di Roma-Bayern Monaco, e avevo trovato un’intervista a Francesco Totti. L’avevo già sbirciata la sera prima al Pronto Soccorso, mentre la pediatra ci diceva che Ada non c’aveva niente all’orecchio.
Uno schifo
In tipografia il clima era uno schifo, era logico. Nessuno parlava di calcio. Mentre io passavo il tempo su internet a preoccuparmi di che malattia potessi averci, i miei colleghi erano impegnati a fare i conti: quello c’ha meno anzianità, quello non c’ha carico familiare, quello è più vecchio, è più giovane, è raccomandato, si rivende facile, non lo piglia nessuno, c’ha il figlio disabile, è uno stronzo, un incompetente, un fancazzista, un leccaculo, un poveraccio. Volevo parlare con qualcuno di calcio per non pensare più al fatto che non mi ricordavo com’ero arrivato a letto la sera prima, solo che non gliene fregava un cazzo a nessuno del calcio in quel momento.
La notte prima
La notte prima, quando con Ada e Anna eravamo usciti dal Pronto Soccorso era mezzanotte. Ada non c’aveva niente per fortuna, ma invece di esserne felice ero nervosissimo, mi capitava spesso in quel periodo. Non riuscivo a scrollarmi di dosso il clima che c’era in tipografia, la sensazione delle persone intorno a me che avevano paura di ritrovarsi senza lavoro e senza soldi. E poi c’era anche la paura che avevo io, di rimanere senza lavoro, e anche di non essere la persona che pensavo di essere, di essere molto più meschino, di essere quello che ero ma che non mi andava tanto di essere perché, in fondo, non volevo accettare il fatto che a me, se non licenziavano me, degli altri, me ne fregava fino a un certo punto.
Traffico
Dopo un’ora buona di traffico, la sera, ero rientrato a casa. Ada era impegnata a spacchettare gli assorbenti di Anna per appiccicarli sulle pareti di casa, sembrava di essere al Macro o in un qualche altro museo di arte contemporanea.
Anna m’aveva guardato, era sfinita dalla giornata, m’aveva chiesto: «Te la sei ricordata la carta carbone?». E io però, era dalla sera prima che non mi ricordavo niente, m’ero scordato pure la carta carbone. E allora le avevo risposto che, col fatto della sera prima, che non mi ricordavo di com’ero arrivato a letto, e poi con la situazione in tipografia, che non sapevo cosa sarebbe successo, e poi con l’incertezza del suo lavoro, che non sapevamo dove saremmo andati a vivere, e poi con l’università, che magari questa storia di iscrivermi all’università era stata una cazzata, le avevo risposto che io, con tutte queste cose nella testa, non riuscivo a ricordarmi pure della carta carbone, non riuscivo a ricordarmi di niente.
Poi basta
Anna m’aveva ascoltato, mentre staccava gli assorbenti dalle pareti del bagno, e poi m’aveva detto che io, più che concentrarmi sulle mie amnesie, e sulla tipografia, e sul suo lavoro, e sull’università, dovevo concentrarmi su quello che diceva lei, e basta.